Viaggio2 – Giorno1/2
È arrivato il momento di tornare in Africa, e iniziare il cantiere vero e proprio del Visitor Information Centre. Non sarò presente in tutte le fasi della costruzione, ma abbiamo pianificato delle missioni nei momenti focali e questo è uno. Lo scopo è posizionare correttamente l’edificio nel sito di costruzione, e iniziare l’opera di fondazione. Nei prossimi giorni inizieremo la produzione dei blocchi Hydraform, dopo una fase di ritardi nella riparazione del macchinario. In più (forse la cosa più importante) lavorerò insieme all’ingegnere del Tanapa per organizzare gli aspetti pratici della cosa. Sarà lui ad avere la responsabilità del cantiere in mia assenza.
Per ottimizzare i tempi ho deciso di non fermarmi a Dar per la notte ma continuare il viaggio immediatamente per gli Udzungwa. D’altra parte l’atterraggio in Tanzania è previsto alle 7:20. Questo quindi il programma dei miei prossimi due giorni: aereo da Firenze a Roma, poi per Doha, poi per Dar es Salam da cui raggiungere in taxi la stazione degli autobus e recarmi a Morogoro dove mi verranno a prendere per raggiungere gli Udzungwa.
Tutto questo non ha a che fare con il VIC in modo diretto, ma ho deciso di perdermi in chiacchiere anche in questa occasione. Il viaggio ha i tempi un po’ troppo esatti, e lamento le poche possibilità per raggiungere in tempo l’aeroporto di Fiumicino entro le 9:30 del mattino, partendo da Firenze. In un modo o nell’altro fila tutto liscio. L’aeroporto di Doha, inaugurato nel 2014 e progettato dallo studio HOK è uno splendore di comfort. L’idea di trascorrerci dentro otto ore risulta quindi non così traumatica. Molto grande, molti posti da esplorare, molti servizi, molto internet gratuito. Per decenni l’High Tech è stato il linguaggio con cui sono stati progettati sostanzialmente tutti gli aeroporti del mondo globalizzato. Rassicuranti espressioni di tecnologia positivista, organizzazione spaziale figlia della flessibilità architettonica come predicata negli anni settanta – macrovolume ininterrotto e strutture secondarie all’interno da riorganizzare all’occorrenza – materiali moderni come l’alluminio e il vetro che minimizzano l’impatto delle migliaia di km appena percorsi e fanno percepire la rete aeroportuale al viaggiatore come una rassicurante città continua malgrado le distanze, un super-luogo di facile lettura ed utilizzo che però, malgrado le personalizzazioni a volte spettacolari, risulta un noioso e non interessante susseguirsi di pavimenti lucidati, schermi e inutili duty-free. L’aeroporto Hamad di Doha è invece un aeroporto contemporaneo caratterizzato da una grande varietà di ambienti e scelte materiche, con la palese intenzione di correggere quel difetto. C’è legno, pietra, moquette, e via dicendo. Ci sono enormi schermi che proiettano immagini e pubblicità sottoponendo gli ambienti a continui cambiamenti di illuminazione. Ci sono enormi sculture posizionate nei punti (piazze?) principali a suscitare curiosità. Forse l’interpretabilità degli spazi ne perde un poco, e in alcuni momenti ti domandi dove andare, ma i desk informazione sono lì per quello. Per me che non ho fretta, l’esperienza è migliorata.
Decollo dal Qatar all’1:50 e atterro a Dar es Salam alle 7:00. Caldo e umidità si sentono anche a quell’ora. Come da accordi, trovo fuori tale Karima. Mi aiuta a fare una sim Airtel che però non funziona come dovrebbe, e poi mi accompagna alla stazione degli autobus, luogo estremamente sgradevole: folla, rumore, sole, caldo, polvere, asfalto e motori. Resto un po’ a cuocere nel pullman prima che questo parta. Ad ogni sosta, decine di venditori bussano ai vetri con la loro merce in maniera tutto sommato non insistente. A qualcuno è anche permesso di entrare nel bus e presentare ogni genere prodotti. per quanto colorato sia il sistema, di fatto chi viaggia ha un ottimo servizio e anche un po’ di intrattenimento. Peccato che in questo momento non ho nemmeno uno scellino tanzaniano in tasca.
Mi chiama Silvia – almeno riesco a ricevere – e ci diamo appuntamento al bivio stradale da cui, dopo aver attraversato il parco di Mikuni, si imbocca la strada per gli Udzungwa. Lungo il parco, non ho il piacere di vedere nessun animale nemmeno all’orizzonte, a differenza della volta scorsa. Silvia mi spiegherà che è soprattutto per via dell’orario e del caldo. Arrivati al punto di incontro, chiedo di scendere e vedo subito il fuoristrada Mazingira con Silvia, Samson ed Emanuel che con l’occasione hanno fatto un giro per delle commissioni. Mi dicono che la strada principale, quella che in sostanza ritaglia la pianura dalle improvvise alture degli Udzungwa, è ormai quasi impraticabile tante sono le buche e le pietre. Percorreremo quindi i circa trenta chilometri rimanenti per le strade interne alle coltivazioni di canna da zucchero, in ottime condizioni visto che sono curate da chi ha interessi specifici. L’immenso latifondo è suddiviso in settori regolari da queste strade. Quando la piantagione è pronta per il raccolto, l’intero settore viene incendiato in modo controllato per rendere più agevole poi la raccolta tra le piante, altrimenti troppo fitte. Le canne sono le uniche parti che restano, e quindi vengono raccolte. Sospendo ogni opinione sul tema.
La sospendo anche sul tema della sfortuna che non voleva che il mio viaggio finisse mai. Il pick-up procede con poca convinzione e in un paio di occasioni si ferma lungo la strada. Avendo la mente ancora in modalità stoica, non me ne dispiaccio e colgo invece l’occasione per fare qualche foto alla zona mentre Samson riesce a sistemare il problema. Arriviamo finalmente al parco attorno alle 18:00, il che significa 35 ore di viaggio continuato circa. Non serve argomentare sopra l’opportunità di fare una doccia. Mangiamo qualcosa da Silvia che in questi giorni condivide il bungalow con Massimo, un operatore video con cui stanno realizzando un videoprogetto che mette a confronto le esperienze dei bambini delle elementari di qui con quelle dei bambini in trentino attraverso un video-racconto in cui la voce narrante è quella dei piccoli.
Entro le nove dormo della grossa sotto la mia zanzariera.