V1 – G7
Oggi, colazione frittata e chapati. Le colazioni le sto annotando tutte!
Facciamo una gran riunione agli uffici del parco, col Chief of the Park sulla poltrona grande e tutti noi attorno al tavolo. Tutto lo staf amministrativo e non solo è stato chiamato a raccolta. C’è anche l’ingegnere Tanapa incaricato di seguire il progetto, Michael Tarimo; c’è il responsabile Tanapa per l’Environmental Impact Assessment, Albert Mziray. Conto 9 di loro, più io, Silvia e Philipo. Chiaramente alcuni restano in piedi perché la stanza ormai è affollata. Si inizia con un discorsetto del capo che è abituato a farne, poi formalisimo giro di presentazioni. Malgrado la formalità mi pare che si sfottano tutti tra sé: probabilmente è così. Spiego il progetto architettonico del VIC. Poi Silvia spiega il mainframe del progetto generale, comprendente le attività con la comunità locali (due blocchi di attività in relazione tra sé). Formalissimo giro di opinioni parte in inglese e parte in swahili, tradotto tra risate sguaiate. Si toccano alcuni dei punti del progetto, in modo particolare in relazione al ruolo dell’amministrazione del parco.
Chiacchieratina preliminare con Tarimo, ingegnere sulla trentina. Mi pare affidabile e preparato. È preoccupato per la scelta di utilizzare gli Hydraform che non ha mai visto in pratica. Anche a lui il training ufficiale per gli operai che può essere fornito dall’azienda stessa pare una buona idea.
Continuiamo la discussione all’aperto, e tutti sembrano d’accordo su dove mettere il nostro edificio. Si decide quindi di procedere a disboscare. Immancabile la foto di gruppo finale.
Andiamo ad ispezionare insieme la macchina Hydraform, che non si può accendere perché vanno fatte riparazioni al motore. Stiamo lì a discutere un po’, mentre alcuni ragazzi affilano i machete per andare immediatamente a sfoltire la vegetazione e disboscare.
Visto che Tarimo, ha in programma di ripartire dopo pranzo con Mzyrai (questa è gente che salta da un parco all’altro), decido di fermarlo finché posso per parlarci a quattr’occhi del progetto. Quindi io, lui e Philipo andiamo a pranzare insieme al Twiga. Ordino una Stoney Tanganica come se fosse il mio solito e tiro fuori i miei disegni. Argomnti affrontati:
• Copertura: non sembra troppo turbato dal progetto ma mi dice che lui probabilmente non sarà sul posto in maniera continuata, e questo potrebbe essere il vero problema che abbiamo qui.
• Fondazioni: mi propone di sostituire la muratura Hydraform con dei blocchetti di cemento, visto che abbiamo concordato che in un contesto simile l’umidità di risalita potrebbe essere un problema. In maniera diplomatica, gli dico di no perché si tratta di un sistema costruttivo che snatura tutte le altre scelte del VIC. Lui vorrebbe evitare bitume e impermeabilizzanti da spalmare in genere, e magari ha ragione. Alla fine, sembra che siamo d’accordo che una muratura in pietrame potrebbe essere una soluzione.
• Lamiere per i solai: a terra, lui mi consignia di evitare i gattaiolati e le camere d’aria e di ridurre gli scavi al minimo lungo i muri di fondazione, e poi disporre uno strato di mattoni e ghiaia compattata, sabbia e pavimento. In effetti, malgrado il progetto iniziale prevedesse dei gattaiolati per tutelarsi dall’umidità, sento di accogliere positivamente la sua posizione posizione. Meno scavi, niente lamiera a terra.
• Pavimento: guardando la sezione 1:20 che ho portato, vuole sapere che pavimento ci metto. Quando gli spiego che vorrei i poveri mattoni, messi a secco con la sabbia, non è d’accordo. Mi parla di durezza, e del problema che qualcuno versi un po’ d’acqua a terra. Argomento che se si bagna, allora si si asciuga; sulla durevolezza non vedo molto da discutere. Tra l’altro, se li monta a secco, un mattone eventualmente spaccato può essere sostituito immediatamente visto che ne vengono prodotti artigianalmente (anche troppi) ovunque nella zona. C’è una differenza di visione dello spazio interno. Gli spiego la mia, e non so se l’ho convinto o lo ho stufato ma la spunto. D’altra parte questo aspetto è una mia responsabilità.
• Chiusura superiore: la presenza della lamiera è confermata solo al solaio superiore, perché a terra abbiamo soppresso i gattaiolati. Il problema è che in commercio qui sembra mancare una lamiera grecata che abbia capacità portante, mentre le corrugated iron sheets correnti servono solo a fare tettoie. L’orditura dei nostri travetti, però, è fittissima. In generale questa parte non lo convince affatto. Rimaniamo che quel dettaglio va studiato.
Tarimo ormai ha deciso di partire domani dopo pranzo. Tanti saluti, io invece me ne vado subito al bungalow a mangiare il packet lunch che mi ha dato Mama Miranda, e riposare una mezz’ora.
Dopo mangiato torno al sito di costruzione. Inizio una sessione di rilievo, iniziando dalle costruzioni limitrofe perché il sito in sé è ancora inaccessibile per colpa della vegetazione. Mi aiuta Philipo. Provo a mettere in atto il mio sistema di rilevamento che ho testato ieri. Passiamo molte ore pazientemente sotto il sole, con Philipo si annoia da morire ma non da segno di cedimento, e regge il cartello puntatore stoicamente. Alcune misure prese non mi sembrano credibili. Si tratta di quote altitudinali del terreno. Mi fermo, ricalibro lo strumento, ricomincio da capo. Stessissime misure. O sono giuste, o c’è un’imprecisione di fondo nel modo in cui uso il cavalletto, che non capisco. Forse la troppa luminosità sballa i rilevamenti, ma non credo che il problema sia lì. Il metodo deve funzionare: è geometria. Pian piano si incuriosiscono tutti al nostro possibile fallimeno. No matter, try again, fail again, fail better. Tra questi curiosi c’è l’ingegnere: rimaniamo d’accordo che domani proveremo insieme a mettere dei punti col metodo del tubo e dell’acqua, giochino che non mi era mai capitato di fare neanche all’università, ma solo di leggerne. Poi lui partirà nel pomeriggio. Quindi, per ora io e Philipo ci arrendiamo stanchi, sporchi e sudati.
Vado a fare la soesa al villaggio di ***. Circa 15 minuti a piedi, mi accompagna Philipo. Sentiero scorciatoia molto bello fra colline arbusti e banani, anche il piccolo guado. Sono molto colpito dal villaggio, semplicissimo ma con una bella atmosfera locale. Case e casette, soprattutto in mattoni locali. Compro alcune cose – acqua, caffè in polvere Africafé, biscotti e alcuni quadernini da elementari a cui proprio non resisto mai quando visito paesi lontani.
Torniamo verso il centre facendo un altro percorso, e Philipo mi accompagna ad un sito di produzione di mattoni appena fuori il villaggio. Mi brillano gli occhi. Avevo detto che in molti casi i locali si fanno i mattoni da sé, spesso abbattendo alberi nei paraggi per alimentare il forno. Qui invece vengono fatti in grande quantità e in maniera sistematica, per venderli. Tutte le fasi sono completamente artigianali e si svolgono all’aperto. Ci lavorano una decina di persone, mi pare, e questi sono i processi:
• scavo del terreno (credo naturalmente) umido. Molti scavi sono piuttosto profondi e anche pericolosi. Tanto hanno scavato che un paio di alberi si sono rovesciati, ma tutti li ignorano.
• mattoni messi a mano in cassaforma (da due unità) e poi sistemati in schiera ordinata per l’asciugatura.
• due tipi di asciugatura: sotto uno strato di paglia e cespugli, oppure “impanati” con la cenere della pula del riso bruciata, che diventa una polvere bianca fine. Philipo mi dice che lo fanno perché altrimenti asciugherebbero troppo infretta e si creperebbero. Se ho capito bene, la loro scelta privilegiata è coprirli, altrimenti li incipriano. Ipotizzo che il funzionamento della cenere (voglio credere che funzioni visto che lo fanno quotidianamente, non saranno mica matti) nel ritardare l’asciugatura possa essere l’inibizione e quindi rallentamento dell’evaporazione dell’acqua tramite la chiusura dei pori della terra sulle superfici esterne.
• quando quelli che sono praticamente adobe sono asciutti, vengono impilati a formare una specie di casotti tutti uguali e secondo me molto belli, che costituiscono contemporaneamente il forno e l’oggetto nel forno. Vengono riempiti e ricoperti di pula di riso che viene incendiata e lasciata bruciare tre giorni. Molto fumo. Si tratta di cottura a fuoco lento.
Ne vorrei tanto portare alcuni a casa per testarli a Firenze al Laboratorio di Costruzioni della Facoltà di Architettura, dove ho svolto il mio Dottorato. Ne vorrei di cotti e di non cotti, per vedere che impatto ha la cottura. E, dopo tante discussioni e congetture, vorrei conoscere con esattezza qual’è l’embodied energy di un oggetto del genere.
Torniamo al centre che è ormai notte e quindi mi infilo immediatamente a cena. Poi me ne scappo in camera presto che voglio proprio riposare. Ho appuntamento domani con l’ingegnere, ma ho perduto il numero e non so dovequando!
Fuori dal bungalow, senti gli ululati! Tanti. Tanti tanti. Bah? L’assedio vero è quello delle zanzare.