V1 – G13
Oggi è l’ultimo giorno che passo negli Udzungwa, per questa prima missione. Ho appuntamento con Philipo all’ufficio del centre alle 8:00. Lo trovo lì che rimette in ordine alcune fatture per la rendicontazione delle spese. Mi chiede di portare alcune buste con quei documenti al CEFA di Dar es Salam dove dormirò (di nuovo) domani sera, così che altri viaggiatori italiani portanno nei prossimi giorni prelevarli e portarli a Trento.
Iniziamo il nostro giro a piedi per i paraggi. Il sito dove probabilmente produrremo i blocchi è effettivamente molto vicino. A occhio, le terra sembra essere adatta allo scopo. Inoltre, l’enorme quantità di mattoni prodotta in zona vale come prova più di molti test di laboratorio, secondo me. Rinuncio a procurarmi un campione di terra. L’erba fitta che per il momento ricopre tutto mi impedisce di prenderne un mucchietto pulita, a meno che io non abbia voglia di scavare, cosa che proprio non ho intenzione di fare in questo momento.
Camminando, passiamo per casa di Philipo. Si tratta di una grossa costruzione non ancora del tutto terminata, le cui finiture sono di qualità decisamente superiore della media. Ci vive lui, sua moglie ed altri, ed ha intenzione di ospitarci i figli di suo fratello e del fratello della moglie non appena possibile, per poi mandarli a scuola nelle vicinanze. Mi fa vedere il terreno di sua proprietà, e mi chiede consiglio su come usarlo nel caso in cui volesse costruire alcuni alloggi per turisti, da gestire. Philipo è una persona che ha in mente piani abbastanza ambiziosi, e fa bene perché potrebbe riuscire. Chiacchieriamo un po’ delle sue cose mentre facciamo colazione da lui con tè e patate dolci.
Proseguiamo fino a raggiungere Mang’ula A. Mang’ula è un villaggio diffuso, che occupa un’area indefinita di terreno pianeggiante ai piedi dei monti Udzungwa coperto da vegetazione di ogni tipo. A me trasmette una sensazione molto gradevole che, come estraneo completo, mi fa pensare ad un luogo di villeggiatura: una specie una pineta ombreggiata da tante palme, banani, e alberi altissimi. Praticamente tutte le case sono costruite in muratura di mattoni locali, con cordolino in CA e copertura in lamiera ondulata montata su struttura lignea. Ci sono anche piccole costruzioni in terra cruda, che immagino di avere già descritto da qualche parte. Il tutto, insediato in ordine sparso. L’economia è principalmente rurale, ma non solo. In strada si svolgono moltissime lavorazioni antiche e moderne: si fanno cesti, si saldano cancelli, si riparano motociclette. Un negozietto di musica e DVD si è autoincaricato di intrattenere tutti nel raggio di un chilometro con le sue casse e raccoglie, mi pare, il favore generale. In giro ci sono molti polli e pollastri, e gente che bazzica in bicicletta. L’atmosfera è molto cordiale. Mi dicono che il villaggio si addensa in due polarità distinte, tanto che data la sua estensione territoriale lo considerano come se fossero due, con l’assurda nomenclatura fantascientifica di Mang’ula A e Mang’ula B.
Mi fermo a comprare credito Vodacom in una botteghina che, occupandosi di telecomunicazioni, si è data un tocco urbano rivestendosi integralmente di piastrelle ceramiche bianche, e munendosi di una porta a vetri con infissi in alluminio anodizzato.
Proseguiamo. Visto che transitiamo vicino ad una scuola elementare (“to our german friends” e due bandiere TZ e DE dipinte al muro) Philipo mi presenta il maestro il quale mi conduce nel cortile. A quel punto, almeno 50 bambini sui sei anni escono di corsa dalle classi e mi saltano letteralmente addosso gettandomi le braccia al collo o arrampicandomisi addosso ridendo, o prendendomi la mano per salutarmi. Tutto molto carino, una vera e propria ondata di coccole che mi travolge. Eppure, sentendomi un po’ Bud Spencer, ho un po’ di disagio.
Sarà una mia impressione, ma mi pare di vedere scuole ovunque, ogni cento passi. Private o pubbliche, asili o elementari, i bambini con le pulitissime ed ordinatissime divisine scolastiche fanno quasi sempre parte delle immagini che scorgo da quando sono qui.
Philipo mi propone di andare a visitare un’altro sito di produzione di mattoni, sempre completamente artigianali e all’aperto. Qui, né producono sia utilizzando la pula del riso che bruciando la legna. Mi illustrano entrambi i sistemi, e le due “linee produttive”. In ogni caso, preparano i mattoni di terra cruda a mano su delle cassaforme da due, e poi li mettono ad asciugare disponendoli ordinatamente a terra cosparsi di cenere oppure ricoperti di vegetazione. Per cuocerli con il riso, qui preferiscono di predisporre filari paralleli di muriccioli a due teste coi blocchi disposti in modo tale da arieggarsi. I muriccioli distano tra loro circa 30-40 cm e quello spazio viene più o meno riempito di pula di riso, poi incendiata e lasciata a bruciare per due o tre giorni. Per cuocerli con la legna, invece, i mattoni ormai asciutti ve gono impilati in una sorta di piramide , che a seconda dei casi può assumere anche dimensioni importanti. Quando sono arrivato, stavano predisponendone una che per il momento era alta circa 5 metri, per un lato di circa 4. Alla base, vengono lasciati dei varchi (come piccolissime volta a botte) nei quali si infileranno i tronchi d’albero da incendiare. Chiedo come è possibile ottenere una cottura uniforme dei mattoni se il fuoco è posizionato esclusivamente sotto la piramide – un enorme volume pieno. Mi dicono che prima di accendere il fuoco ricopriranno tutto con uno strato di terra, allo scopo di non disperdere calore. Non so se la cosa mi convince. Alcuni grossi tronchi, che una volta erano un albero, se ne stanno lì già segati pronti per essere usati come combustibile: una fonte rinnovabile solo a patto che qualcuno la rinnovi, e questo non è certo il caso.
Tornando, ci fremiamo a bere una bibita a Mang’ula B. Ci troviamo Prisca, la naturalista del parco che si alza e viene a salutarci. Mi fa piacere perché nei giorni scorsi mi era sembrata un po’ timida anche perché donna in un ambiente di lavoro decisamente a maggioranza maschile. Colgo l’occasione per chiederle se ha modo di procurarmi una lista di piante autoctone del parco che possano essere inserite nel giardino. Ho infatti intenzione di chiedere la collaborazione di amici che si occupano di progettazione del verde, se hanno voglia di contribuire e fare un’esperienza di progetto particolare. Philipo ordina anche dei tocchetti di carne di manzo, con cui facciamo praticamente aperitivo.
Prima di tornare al centro, passo al parco a prendere i risultati del rilievo di ieri. Non tutti i Tanapa sono in ufficio a quell’ora, quindi dico ciao a chi c’è lascio detto di salutarmi gli altri. Vado all’ufficio del monitoring centre ed integro le quote altimetriche nel mio disegno. Effettivamente, il dislivello è maggiore di quanto non sembrasse ad occhio. Torna Silvia, che non vedevo da lunedì. Chiamano la compagnia di bus per prenotare il mio biglietto di domani. Nell’indecisione mi faccio convincere da Rasmus a prendere il primo bus che però (scopro un attimo dopo) parte alle 6 da Iringa, a sua volta a circa un’ora di auto da qui. Ugh!
Faccio la doccia, poi ci sembra il caso di mettere in conto una cena al Twiga per avere modo di fare due chiacchiere e per fare un resoconto della missione. Il tavolo Mikumi è occupato, quindi ci sediamo al Ruaha. Incredibile ma vero, il jeko me la rifà sulla spalla anche se ho cambiato posto. Si uniscono alla cena anche un gruppo di australiani – una naturalista sui trenta che fa ricerca qui, i suoi genitori che sono venuti a trovarla, ed il ranger. Si tratta di gente che ha voglia di ridere e scherzare. A me fa piacere e quindi mi iscrivo subito al club.
Naturalmente ce ne andiamo a letto presto malgrado il servizio pole pole. Io in modo particolare ho una terribile sveglia alle 4:30: al solo pensiero non riesco a dormire!