V1 – G12
Tutto coperto, quasi nebbia. Gli Udzungwa sfumano nel bianco. Bene. Ho appuntamento al parco alle 9. Ci vado senza fretta, ma comunque non si vede nessuno e mi tocca aspettare. Penso di prendere quelle ultime due-tre misure che mi mancano, ma il destino dice no perché inizia a piovere (più una scocciatura che un’impedimento) e soprattutto il Disto non da segni di vita. Male. Probabilmente sono le batterie, anche se ieri non ho notato alcun messaggio. Non vedo perché debba essersi rotto, malgrado il viaggio ed il rilievo un po’ avventuroso: non ha battuto, non si è bagnato, non è stato dimenticato al sole o al gelo (tanto per ragionare come il foglio della garanzia). Probabilmente, il bello schermino col puntatore lo fa consumare più degli altri modelli a cui ero abituato. Non ho batterie di ricambio, e mi pare che non valga la pena di cercarle per due o tre misure mancanti. Cercherò di fare senza, o chiederò a qualcuno dando indicazioni il più precise possibile. Dopo un po’ che aspetto, mi comunicano che il tizio con lo strumento non sarà qui prima delle 12. Ok me ne torno là da dove me ne sono venuto cioè il centre.
Passo alla camera, e incontro Rasmus col quale chiacchiero qualche minuto. Visto che nei prossimi giorni dovrò andare a Dar es Salam in bus, mi consiglia di prendere quello diretto che parte all’alba invece di quello delle 13 che impiegherà dieci ore. Altri punti per Rasmus, in rapidissimo recupero di classifica. Sebbene, mi pare tenda sempre a fare descrizioni catastrofiche degli eventi.
Mi installo nella seminar room del monitoring centre. Qui ho a disposizione grandi tavoli, un’altro ambiente – mi sono stufato della scrivania della mia camera! – e soprattutto il wifi dell’ufficio adiacente. Non me ne faccio molto, però. Decido di passare il tempo a ragionare su alcuni dettagli che il mio cervello aveva deciso di procrastinare: controsoffitto e finestre.
A dire la verità, l’input è venuto dalla finestra accanto alla quale sono seduto, fatta come quella della mia stanza e dell’ostello qua vicino. Come per tutto il resto delle cose che abbiamo da fare, usare sistemi locali è più pratico. Le finestre sono bruttocce, ma hanno una loro intelligenza. Sostanzialmente si tratta di una serie di lamelle di vetro che ruotano ognuna sul proprio asse per permettere di arieggare quando sono ruotate a 45 gradi oppure di chiudere (non proprio sigillare), agganciate a due brutti binari in alluminio che corrono verticalmente lungo il controtelaio verticale in legno della finestra. Alcuni vetri stanno scivolando via; basterebbe un po’ di silicone. Alcune manigliette permettono di ruotare le lamelle, a quattro a quattro. Gli faccio un po’ di foto, ne prendo le misure e disegno tutto sull’agenda. Magari si possono riorganizzare gli ingredienti e trovare la soluzione per noi.
Apprezzo molto questo tempo passato a disegnare e a prendere appunti sul quaderno. Essere qui – un po’ isolato, e con molte finestre di tempo da riempire senza una connessione internet veloce – me ne da la possibilità. Per questo, giro pagina e inizio a disegnare anche il semplice intreccio di foglie che qui usano per fare i cesti. Mi piace molto perché a scanso dei materiali utilizzati, mantiene una geometria molto definita. I giorni passati, al mercato, ho fatto molte foto a questi cesti. In una prima fase di progetto, io e Dalia abbiamo pensato di controsoffittare tutto usando dei tessuti. Un tessuto di juta con disegni geometrici nei render di progetto di cui eravamo soddisfatti; possibilmente tessuti e decorazioni locali da reperire qui nelle nostre intenzioni. Visitando il posto, questo intreccio ha catturato la mia curiosità, e pian piano nella mia mente si sostituisce ai tessuti. Da un lato, faccio fatica ad accantonare quel senso di direzionalità che avevamo inserito nei render, così contemporaneo nelle nostre intenzioni. Questo invece sarebbe un pattern geometrico, forse con meno carattere al colpo d’occhio. Daltra parte, questo intreccio (magari con dei telai di legno da nascondere o qualche altro sistema molto semplice) si presta alla retroilluminazione con dei semplici ed economici neon, anche considerando la diffusione della luce che potrebbe essere incoraggiata dall’intradosso in alluminio della lamiera. Faccio disegnini un po’ per ragionare e un po’ per ammazzare il tempo. Sentiremo che ne pensa Dalia.
Mi sta mettendo di buon umore l’idea di avere il pavimento in mattoni locali ed il soffitto in foglie. Oltre alla semplicità e all’economia, si mettono in evidenza due aspetti della realtà popolare locale (non arte o artigianato inteso come folklore, ma quotidianità) che qui non sembrano interessare a nessuno. Almeno per come l’ho vista io in questa mia breve esperienza sul posto. Credo però che questa possa essere una strategia per incorporare in maniera discreta ma indelebile la comunità locale con l’edificio, cosa che è coerente con il programma proposto alla PAT. Poi ci sarà l’esposizione sul parco che parla esplicitamente della natura, ed il mercatino fuori a fare il folklore.
Produzione locale a terra e in celo: supporto e protezione, base e aspirazione, partenza e arrivo… Che romantica metafore: no, non cercherò di vendervele.
Intanto si sono fatte le 12:40 e non mi chiama nessuno. Chiudo tutto e me ne vado al mio Mikuni, intendo il gazebo. Ovviamente mi chiamano non appena ho ordinato, ma a questo punto tocca a loro aspettare. Uups! My internet bundle has expired! Mi ero abituato troppo bene: devo correre ai ripari. Per le 13:30 sono al parco. Due signori sui cinquanta sono arrivati qui con un teodolite legato sul retro di una moto da cross. Ci accordiano per una griglia 10×10 metri, gli indico il punto di partenza che mi interssa e loro si mettono al lavoro. Grazie a delle batterie in prestito che mi ha scovato gentilmente Philipo, passo il tempo facendo le ultime verifiche al mio rilievo degli alberi, fino alle 17 circa. Passo un po’ di tempo a chiacchierare con Joel, il più giovane dello staff direzionale del parco. Abbiamo messo a confronto molti aspetti tra la mia esperienza europea-italiana e la sua tanzaniana, soprattutto per quanto riguarda la gente della nostra età. Molto interessante.
Mi restano solo poche cose da fare a Mang’ula, tra cui visitare il luogo in cui mi propongono di allestire la produzione dei blocchi Hydraform, un terreno di proprietà Tanapa a valle posizionato a meno di un km dall’ingresso del parco. I rilevatori però non hanno ancora finito il loro lavoro. Per aspettarli, si fa tardi: rimandiamo ogni altra incombenza a domani che tanto c’è tempo.