Oggi è il giorno della partenza, dagli Udzungwa. Massimo e Silvia hanno deciso di viaggiare con me verso Dar es Salaam perché il loro volo è il giorno dopo del mio e accorpare il trasporto rende tutto più confortevole e conveniente. Faremo il viaggio su un grosso Toyota Land Cruiser.
Riorganizzo il mio zaino con una certa facilità – non ho portato molte cose con me – e mi metto ad aspettare gli altri che invece, data la trasferta di 40 giorni e le attrezzature per le riprese, hanno bisogno di qualche minuto in più. Quando è ora di partire infilo le scarpe, ma ci trovo dentro un grosso millepiedi che devo convincere ad uscire. Lungo una decina di centimetri, dorso rinforzato nero e zampette rosse. Una bella schifezza con cui mi sembrava fosse chiaro l’accordo implicito di ignorarci reciprocamente. Infatti di quelli come lui ne avevo visti già parecchi lì attorno, fuori e dentro casa.
Sulla nostra auto sale anche Shirima, il Tanapa che l’altro ieri mi ha accompagnato alla cascata. Sono sicuro che ha ancora l’acido lattico. Il viaggio procede senza problemi salvo quello intrinseco di essere interminabile. Per raggiungere Dar impiegheremo circa nove ore, senza alcuna sosta. Per tutto il tempo tengo lo zaino con il computer sulle gambe per evitargli il calore insostenibile del pianale e soprattutto gli infiniti sobbalzi. Mentre attraversiamo il parco di Mikumi Silvia mi indica un gruppo di elefanti che sono contento di vedere seppur in maniera fugace. Cerco di fare una foto lestamente ma tutto quello che immortalo è un enorme sedere grigio alla sinistra dell’immagine.
Quando faccio la doccia a Dar, trovo sotto il piede il segno del millepiedi che ho trovato nella scarpa. Sembra una bruciatura nera, ma non fa né male né si sente niente a tatto: fa solo schifo. Silvia mi dice che, a parte macchiare la pelle per qualche tempo, non ci sono altre conseguenze. Ovviamente vi risparmio la foto. E domani me ne volo a casa.
Quando la mattina raggiungo il cantiere, gli operai hanno già iniziato a scavare le trincee per le fondazioni a partire dalle impronte fatte col gesso sul terreno a partire dalle line di asse dei muri identificate ieri. Sono circa quindici persone e hanno a disposizione zappe e vanghe. Tutti gli scavi vengono svolti senza macchine perché non c’è una scavatrice nella zona. Io e Tarimo controlliamo che la posizione dell’edificio piccolo (lievemente rotato rispetto all’altra) sia corretta. Lo è.
Nel frattempo, Massimo arriva con la telecamera e tutta la sua strumentazione per iniziare le interviste. Il capo del parco Uruka si presta con entusiasmo, forse troppo entusiasmo. Dopo aver assistito anzi partecipato al siparietto, vado a discutere con Tarimo di alcuni aspetti del budget. Lui dice di essersi messo in contatto con un’impresa che gli sta preparando un preventivo per completare il primo stralcio di lavori che abbiamo previsto, cioè la realizzazione delle fondazioni e del cordolo di base in cemento armato. Pare che i costi siano nel nostro budget, ma aspetto a dirlo. Mi propone alcune modifiche di importanza secondaria, che credo accoglierò. Resta incredibilmente ancora aperta la questione del pavimento. I tanzaniani i mattoni locali proprio non li vogliono, e la constatazione di qualche giorno fa sullo stato di usura di alcuni tratti del camminamento al centre non mi fanno sentire a mio agio nell’insistere. Gli chiedo di aiutarmi a selezionare una pietra con le caratteristiche giuste e quanto più possibile locale, ma mi fanno vedere sui loro smartphones alcune immagini da brivido di pavimentazioni vendute da aziende non proprio dei paraggi.
Fuori, intanto, alcune donne sono venute in cantiere a cucinare per gli operai rendendo tutto persino più folcloristico di quanto non fosse già. Silvia e Massimo invece sono al villaggio a girare l’intervista di Philipo in qualità di rappresentante della comunità locale.
Torno al centro con l’intenzione di essere io oggi a cucinare per gli altri, ma non c’è energia elettrica che mi serve per utilizzare le piastre elettriche. Perdo una mezz’ora nel tentativo di ripristinarla.
Nel pomeriggio, torno in cantiere con Massimo per girare la mia intervista che sostanzialmente mostrerà un individuo col sole negli occhi e le gocce di sudore in fronte solo per il fatto di essere al sole. Invece gli operai hanno continuato a lavorare per tutto il giorno in maniera sbalorditiva. Le trincee su cui si costruiranno i muri di fondazione sono profonde circa 1,20 metri ed il lavoro è impressionante. Stimano di finire di scavare tutto e rimuovere la terra entro tre giorni. Mi pare più che realistico.
Tornato al centre, colgo l’occasione per illustrare a Philipo il foglio di calcolo che ho preparato per la compilazione delle spese, che dovrà tenere aggiornato lui e inviarmi regolarmente. Tutto ok tranne che alcune unità di misura metrico-decimali andranno convertite in altre più rustiche per andare incontro ai venditori: cesti, secchi, camion e via dicendo.
Svegliandomi mi rendo conto che sono decisamente ustionato dal sole: sono un perfetto redneck con l’abbronzatura da muratore. Essendo cresciuto sulla costa, non credo di esagerare nel dire che non mi era mai successo prima. Sono un po’ preoccupato per la lunghissima giornata sul campo che ho davanti.
La costruzione del VIC è ufficialmente partita. Posizioniamo i paletti su tutti i punti noti senza avere grandi problemi se non il sole che col progredire della mattinata si fa sempre più insistente. La progettazione del VIC è interamente basata su una griglia in pianta di 1×1 metro. Anche gli angoli non retti sono generati dalla griglia, quindi di facile ricostruzione anche senza strumenti particolari. Faremo quindi riferimento alla griglia di progetto per disegnare sul terreno la posizione (gli assi, da cui sviluppare l’impronta a terra) dei muri di fondazione ed iniziare così le opere di scavo. Mentre facciamo queste cose, gli operai sono comodamente seduti a terra sotto gli alberi circostanti ad ascoltare musica. Per qualche ora, sono loro che stanno a guardare.
Verso l’una e mezzo io e Tarimo andiamo al Twiga per il pranzo. Ci sediamo al gazebo Mikumi dove ci raggiungeranno il chief of the park seguito da altri membri dell’amministrazione. Il Twiga, dove sono convenzionati per mangiare, è per i Tanapa una seconda casa sugli Udzungwa. A pasto fatto, il chief ci invita a tornare al parco con uno dei loro fuori strada. Visto che nessuno accenna a pagare e che alla cameriera sembra normale così, assumo che il pasto sia offerto dal Tanapa. Oppure, al Twiga mi stanno ancora cercando. Mentre torniamo, chief Uruka mi dice che hanno in mente di costruire un piccolo ponte pedonale allo scopo di rendere più praticabile il sentiero che conduce ad una delle tre cascate che si possono visitare nel parco degli Udzungwa. “Qui vicino”, dice, indicando la foresta, e poi mi chiede di progettarglielo. Ormai ho fatto l’abitudine alle richieste di progetti che qui sono frequentissime. Tutto senza alcun budget ovviamente. Per essere gentile, gli dico che se vuole vado a dare un’occhiata per dargli la mia opinione e lui incarica una guida e un Tanapa dell’amministrazione, Shirima, di accompagnarmi. Il percorso si rivelerà infinito. Imbocchiamo una “scorciatoia” che costeggia inizialmente il parco lungo la quale sono installate decine di arnie per apicoltura con il logo UN, installate in chi sa quale progetto di cooperazione. Giriamo a sinistra in direzione dei monti, e iniziamo una salita molto ripida che si inoltra nella foresta. Questo sentiero – non uno di quelli turistici del parco – sale parallelamente ad un condotto in cemento sul quale a momenti camminiamo in equilibrio e che conduce acqua pulita dai monti direttamente alla comunità di Mang’ula che si trova a valle. Shirima sostiene che si tratti di un progetto cinese risalente agli anni quaranta ma visto che (per quanto ne so io) in quel periodo c’era un passaggio di mano coloniale dall’Africa Orientale Tedesca al Tanganica di dominazione inglese. Sono curioso di verificare. Però, una piccola diga in cemento e pietra con i caratteri cinesi a bassorilievo è inequivocabile e terribilmente affascinante.
Lungo la salita scimmie, serpenti, insetti e altri animali di cui nella quotidianità si può fare a meno, ma alberi bellissimi e splendidi panorami. Il percorso, oltre essere impervio è lunghissimo: per raggiungere la cascata impieghiamo un’ora e mezzo e sono spaventato all’idea che poi si deve anche tornare. Shirima (chiaramente un uomo da ufficio capitato lì suo malgrado) sembra davvero a pezzi e anche io sono molto stanco, anche a causa della mattinata pesante. Penso che almeno la foresta è ombreggiata e sono almeno un po’ tutelato dall’insolazione. La cascata è alta una ventina di metri. Il percorso in effetti costringe chi vuole attraversare il fiume ai suoi piedi a districarsi tra i massi, ma la prima cosa che penso è che chiunque sia stato capace di arrivare fin lì, saprà anche attraversare gli scogli. Mi dicono che durante la stagione delle piogge però il livello dell’acqua sale ma quello è però anche il momento in cui un eventuale ponte sarebbe più a rischio a causa del possibile passaggio di grossi tronchi lanciati giù dalla cascata. Provo ad immaginarmeli; sbrigatevela da soli e riportatemi giù, che la giornata sta finendo e io vorrei supervisionare le operazioni al VIC. Tornato a valle, scopro che tutto è progredito senza intoppi.
Sono ormai le sette, quindi torno al centre. Fortunatamente Silvia e Massimo cucinando hanno anche pensato a me. Mangiamo insieme chiacchierando della realizzazione del video per la promozione del VIC, che per forza di cose va girato domani.
Alle nove vado al parco per iniziare con Tarimo la procedura di identificazione dei punti principali dell’edificio. Praticamente si tratta di iniziare. Alcuni membri dell’amministrazione del parco che stavano andando al lavoro mi danno un passaggio con un fuoristrada dei loro. Sul posto constato però che ci vorrà almeno ancora un paio d’ore prima che il terreno sia sufficientemente pulito per cominciare, e decidiamo di rimandare l’inizio alle 11. Le cose procedono, ma pole pole. Torno al monitoring centre per lavorare un po’ al computer, e anche in questo caso ottengo un passaggio in fuoristrada da due ranger. Almeno non ho camminato inutilmente mezz’ora al caldo.
Colgo l’occasione per cercare il treppiede per usare più comodamente il Disto quando posizioneremo i punti. Infatti, molti dei punti di riferimento che ho preso nel disegno sono distanti 15-20 metri dal punto e quindi il misuratore laser sarà utilissimo. lo trovo esattamente dove lo avevo lasciato in agosto cioè nel terzo bungalow dove dormivo in quel periodo.
Tornato al parco, cominciamo davvero con il posizionamento. Decidiamo che il primo punto in cui mettere il paletto sarà lo spigolo nord-ovest del muro di contenimento. Essendo quello spigolo retto, svilupperemo con più facilità il disegno sul terreno. Purtroppo guardando meglio la cartina mi accorgo che (oltre ai quattro alberi seccati che ho notato subito, ne mancano altri due che oltre ad essere belli e fornire ombra servivano come punto di riferimento. Di uno, trovo i resti inceneriti: chi può sapere che storia c’è dietro? Procedendo con le misurazioni, riusciamo ad identificare un punto con un margine di errore minimo, che decidiamo essere accettabilissimo visto che stiamo trilaterando con degli alberi. Posizioniamo i due punti principali per avere la retta che genererà l’intera pianta. Ci siamo. More or mess. A partire da quella direttrice tracceremo le rette ortogonali verificandole sulle lunghe distanze con il più banale teorema di Pitagora e le misurazioni del Disto. Nel frattempo, il sole è diventato insostenibile. Discutendo sui disegni, Tarimo mi chiede di aggiungere alcune quote che secondo lui renderanno le operazioni più pratiche. Tornato al centre mi metto quindi a compilare a mano la pianta 1:100 dell’insediamento su cui stiamo lavorando traendo le misure direttamente dal file Archicad del progetto che ho nel mac. Continuo queste operazioni in ufficio fino a circa le 20:20.
Cena al Twiga – per una volta dentro inveche che nei gazebo fuori, il che peggiora notevolmente l’esperienza. Alla cena ci siamo io, Silvia, Massimo e tre collaboratori locali di Mazingira che hanno aiutato nella produzione delle clip video. Dopo la cena, accompagniamo una delle collaboratrici al proprio alloggio perché è sola e senza una torcia: sarà occasione per fare una passeggiata nella Mang’ula notturna, con lucine che escono dalle finestre delle case e un cielo incredibilmente pieno di stelle.
Come? Questa notte è piovuto? Io non ho sentito niente. L’appuntamento è alle 8:00 all’ufficio del chief of the park per la riunione in cui siamo una decina. Ci danno un foglio con l’ordine del giorno di oggi; la mia sopravvivenza è al punto 7 e non vedo cosa ci sia da tanto discutere. Malgrado ci conosciamo già tutti ci viene chiesto di presentarci a turno. Poi il chief chiede a Silvia di leggere l’intero rapporto della riunione precedente e come se non fosse abbastanza anche di leggere l’intero Memorandum of Understanding tra Tanapa e Nadir (che è capofila del progetto per la realizzazione del VIC). Così facendo, passa un’ora buona e Silvia perde il fiato. Dopodiché finalmente si possono affrontare i punti in maniera tutto sommato positiva.
Fuori, intanto, una quindicina di operai sono al lavoro con la pala per caricare su un camion i cumuli di terra superficiale da rimuovere. Il terreno è ormai quasi sgombro.
Mi metto al lavoro con Tarimo, nell’ufficio della Park Ecologist che tanto adesso è fuori per un convegno. Parliamo prima delle cose imminenti, e in modo particolare le opere di fondazione. Quote di imposta, schema generale e dettagli. Io gli illustro i disegni che ho portato dall’Italia e mi pare che siamo d’accordo sulla maggior parte delle operazioni. Abbiamo anche occasione di discutere di aspetti meno urgenti, come la struttura metallica di copertura. Quello che sarà problematico in quel caso è il coniugare la progettazione (architettonica, tecnica e strutturale) degli elementi con l’effettiva disponibilità di materiali e la fattibilità delle lavorazioni. Proprio allo scopo di tradurre all’effettiva fattibilità i dettagli della copertura, il coordinamento con il local enineer è fondamentale.
Una volta tornano al monitoring centre cerco di postare alcune immagini, ma internet oggi dice no. Mi devo rassegnare per forza. Intanto, discuto con Silvia su come si potrebbe strutturale il racconto per il video. Alle sette abbiamo la cena a casa di Emanuel e Miranda. Questa volta, per essere un ospite meno peggio, mi metto una kurta che ho saggiamente infilato nello zaino. Più di così non posso spingermi. Alle otto vengono a prendere me, Silvia e Massimo. La casa è molto grande, circondata da un giardino delimitato da un alto muro. Dal cancello, l’auto si infila direttamente in un garage un po’ rialzato da terra. Un cagnetto simpaticissimo viene a farci delle feste. I padroni di casa ci accolgono calorosamente: tra famiglia e invitati siamo in tutto una decina e veniamo condotti dentro, dove un tavolo è apparecchiato con un ricco buffet preparato da Mama Miranda e dove mangeremo nella grande sala seduti sui divani. Alla televisione un dvd mostra una gospel competition che ha visto sfidarsi, l’anno scorso, i migliori gruppi del paese. Poi, videoclip sudafricani in lingua zulu mentre noi beviamo birra e – di nuovo – il Dompo. Torneremo a casa tardissimo: alle 22:30 sono nella mia stanza a schivare le zanzare.